Sembra un nome in codice: connessina 43. In realtà si tratta del punto chiave attorno al quale si sta cercando di completare il puzzle dell’osteoporosi, una malattia che solo in Italia affligge cinque milioni di persone: un terzo dei quali sono uomini, fino a pochi anni fa considerati «immuni» al deterioramento delle ossa. Femore, vertebre, polso e omero sono quelli che si «sbriciolano» con maggiore frequenza, dai 50 anni in poi.
Se l’aumento dei numeri è da ricondurre all’invecchiamento della popolazione, il meccanismo molecolare responsabile della disfunzione è ancora in fase di accertamento. Ha un ruolo, nella donna ma anche nell’uomo, il calo degli estrogeni che si verifica con la fine del ciclo della fertilità. Altre responsabilità possono essere ascritte all’aumento di citochine infiammatorie nel tessuto osseo: condizione ricorrente per chi soffre di malattie croniche. Ma cosa succede in quel reticolo di cellule che contribuiscono alla costruzione (gli osteoblasti) e alla demolizione (gli osteoclasti) dell’osso è ancora in fase di definizione.Molti indizi lasciano pensare che la connessina 43 rivesta un ruolo cruciale. Si tratta di un «cancelletto» tra una cellula e l’altra che si trova in diversi distretti: dal cuore (dove regola la trasmissione degli impulsi elettrici) ai testicoli (qui coordina la secrezione di ormoni androgeni). Nell’osso, invece, il canale, posto sulla membrana di ogni cellula, regola il flusso di molecole e ioni tra le cellule. Tra queste c’è il calcio, il cui deficit è considerato alla base dell’osteoporosi. L’ipotesi è stata corroborata da alcuni dati presentati al congresso della Società Italiana Osteoporosi. «Eliminando il gene Gja1 che codifica per la connessina 43 dalle cellule coinvolte nel rimodellamento dell’osso, la struttura tende a degenerare», spiega Roberto Civitelli, professore di chirurgia ortopedica e biologia cellulare alla Washington University di Saint Louis.Il primo riscontro è avvenuto nei topi e risulta documentato in uno studio pubblicato già nel 2011 sul «Journal of Bone and Mineral Research». Iniettando la tossina botulinica (in grado di paralizzare i muscoli) nelle zampe posteriori degli animali, s’è visto come la corteccia delle ossa si assottigliasse e la zona sottostante, deputata al riassorbimento, risultasse più attiva. Primi segni di un deterioramento del tessuto, assente invece nei topi in cui la connessina era pienamente attiva. Il processo è proseguito nel primo semestre successivo all’iniezione, sebbene i ratti fossero coinvolti in un processo di riabilitazione.Un meccanismo simile si osserva nell’uomo conl’invecchiamento e in chi attraversa lunghi periodi in assenza di gravità (gli astronauti). «La priorità è trovare un collegamento tra l’alterazione del gene che codifica per la connessina e la perdita di massa ossea», prosegue Civitelli. Non potendo modificare il Dna, si punta a ottenere questi risultati osservando l’evoluzione del tessuto in chi presenta la mutazione di Gja1 fin dalla nascita. Un’ipotesi vorrebbe i difetti scheletrici responsabili dell’interruzione dell’attività della proteina, con danni alla comunicazione tra le cellule. Lo squilibrio risulterebbe alla base della demineralizzazione di molte malattie metaboliche dell’osso: non solo l’osteoporosi, ma l’osteomalacia e la malattia di PagetL’eventuale scoperta non sarebbe fine a se stessa. Se la tesi fosse confermata, potrebbe cambiare l’approccio terapeutico all’osteoporosi. Finora s’è puntato tutto sulla somministrazione di farmaci (bifosfonati) che inibiscono il riassorbimento. Ma in futuro si potrebbe valutare l’opportunità di somministrare medicinali che agiscano sulla connessina, che tra l’altro i cardiologi già impiegano per correggere i battiti del cuore irregolari.(fonte:La Stampa).